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Lavorare all'estero: tra crescita professionale e pressione psicologica

jeune homme stresse
drazenphoto / Envato Elements
Scritto daVirginie Thionil 09 Ottobre 2025

Lavorare all'estero viene spesso considerato un privilegio, un'opportunità capace di segnare la carriera. L'espatriato appare come un professionista flessibile, aperto al mondo e pronto ad adattarsi a qualsiasi contesto. Dietro questa immagine impeccabile, però, si nasconde una realtà più complessa: una pressione silenziosa e interiore che può logorare poco a poco la salute mentale, spesso senza che ce ne si accorga. Per evitarlo è fondamentale imparare prima a riconoscerla e poi a gestirla in modo sano.

L'entusiasmo di un nuovo inizio… e il rovescio della medaglia

Arrivare in un nuovo Paese porta con sé un misto di entusiasmo e stress. Tutto appare estraneo: i colleghi, i codici sociali, le aspettative professionali e, a volte, perfino la lingua. Questa fase, che ricorda la "luna di miele" descritta nella teoria dello shock culturale, può facilmente nascondere una tensione sotterranea. Il desiderio di fare bene, integrarsi e dimostrare il proprio valore rischia di trasformarsi presto in una fonte costante di pressione.

Sul lavoro questo si traduce spesso in:

  • iper-disponibilità, rispondendo a tutto e a tutti in ogni momento;  
  • iper-adattamento, senza mai mostrare i propri limiti;
  • paura di fallire, per non “sprecare” l'opportunità conquistata.

Anche se in certi ambienti questi atteggiamenti possono essere incoraggiati, alla lunga finiscono per prosciugare le energie mentali ed emotive.  

La sindrome dell'impostore in un contesto interculturale

La sindrome dell'impostore è un fenomeno ben conosciuto: persone competenti che mettono in dubbio la propria legittimità. Per chi vive all'estero, questo senso può essere amplificato da:

  • barriere linguistiche;   
  • mancanza di riconoscimento esplicito;   
  • difficoltà nel decifrare le regole non scritte.

Uno studio condotto da Bravata et al. (2020) mostra che la sindrome dell'impostore è particolarmente diffusa tra i professionisti in fase di transizione, compresi gli espatriati. Può manifestarsi attraverso:

  • la tendenza a sminuire i propri successi;  
  • la paura di essere “scoperti”;
  • un'eccessiva autocritica.

Riconoscere questo meccanismo è il primo passo per prevenirlo. L'obiettivo non è eliminarlo del tutto, ma imparare a conviverci.

Aspettative implicite: un peso invisibile

Gli espatriati spesso portano sulle spalle il peso di aspettative non dette:

  • dall'azienda: essere performanti, autonomi ed esemplari;
  • dalla famiglia: avere successo, cavarsela bene, non lamentarsi;
  • da sé stessi: giustificare la scelta, non deludere nessuno.

Queste aspettative generano una tensione interiore difficile da esprimere. Alimentano una pressione silenziosa che cresce con il tempo.

Un'abitudine che aiuta: l'autovalidazione settimanale

Un modo semplice per alleggerire questa pressione è introdurre un rituale di autovalidazione. Ogni fine settimana, dedica 20 minuti a:

  1. elencare tre risultati concreti (anche piccoli);
  2. individuare una competenza che hai utilizzato;
  3. scrivere un'affermazione positiva su te stesso (ad esempio: “Ho gestito una situazione complessa con calma e chiarezza”);
  4. annotare un'emozione provata al lavoro e ciò che ti ha insegnato.

Questo rituale aiuta a rafforzare l'autostima, dare prospettiva e ritagliarsi uno spazio personale di riconoscimento.

La salute mentale si manifesta anche attraverso il corpo. Per chi vive all'estero, i segnali fisici sono spesso i primi ad indicare uno squilibrio:

  • disturbi del sonno;  
  • stanchezza persistente;
  • tensione muscolare;   
  • mal di testa ricorrenti.

invece di ignorarli, è utile considerarli come messaggi da decifrare. Spesso il corpo parla prima che la mente capisca. Prendersene cura - con riposo, movimento e una buona alimentazione - è una forma potente di prevenzione.

Farsi le domande giuste

E' importante fermarsi e riflettere con regolarità:

  • sto lavorando per soddisfare aspettative esterne o per seguire un desiderio interiore?  
  • mi sento riconosciuto nel mio ruolo?
  • riesco a esprimere i miei limiti senza timore?
  • trovo piacere in ciò che faccio o vivo solo in “modalità sopravvivenza”?

Queste domande non servono a giudicarsi, ma a fare chiarezza. Aiutano a individuare le aree di tensione e ad aprire lo spazio per un cambiamento.

Creare spazi di dialogo  

La prevenzione passa anche dal dialogo. In un contesto professionale è fondamentale creare spazi sicuri in cui potersi confrontare liberamente:  

  • gruppi di discussione tra espatriati;   
  • sessioni di coaching;
  • scambi informali con i colleghi.   

Questi spazi aiutano a sentirsi meno soli, permettono di condividere strategie e rafforzano il senso di appartenenza.  

Il ruolo dell'azienda 

Le organizzazioni hanno un ruolo fondamentale. Possono:

  • offrire formazione interculturale;   
  • mettere a disposizione strumenti di ascolto e supporto;  
  • valorizzare percorsi professionali diversi;
  • promuovere una cultura dello scambio costruttivo e compassionevole.

Un'azienda che investe nel benessere dei dipendenti espatriati favorisce rendimento e coinvolgimento, tutelando anche la salute mentale.

Lavorare all'estero significa anche lavorare su se stessi

Trasferirsi all'estero per avanzare nella carriera è un percorso gratificante, ma impegnativo. Non si tratta solo di un ruolo prestigioso o di un'avventura esotica: comporta una profonda trasformazione interiore, un adattamento continuo e, a volte, una lotta silenziosa e invisibile.

Prevenire la sofferenza significa riconoscere questa complessità e disporre di strumenti per gestirla. Vuol dire anche accettare che competenza e bisogno di supporto possano convivere.

Forse è arrivato il momento di considerare la "cura di sé" come una vera e propria competenza professionale.

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